L’archivistica e il suo linguaggio. Cos’è un’unità di conservazione?

Inauguriamo con questo contributo una serie dedicata alla conoscenza del linguaggio tecnico archivistico.

Come tutti i domini, infatti, anche l’archivistica utilizza un proprio linguaggio e declina alcuni termini con un significato peculiare. Ovviamente ciò è funzionale alle comunicazione fra gli addetti del settore, ma a volte questo stesso linguaggio rappresenta un ostacolo alla relazione con l’esterno: nei rapporti con i soggetti produttori degli archivi, oppure nella comunicazione rivolta alla più generale comunità degli utenti.

Grazie alla tecnologia, infatti, i sistemi informativi rappresentano in modo sempre crescente i canali di predisposizione e diffusione di contenuti archivistici e dei loro strumenti di ricerca specifici accrescendo la platea di potenziali fruitori di tali contenuti e strumenti.

Per condividere e spiegare i termini utilizzati nel proprio dominio, gli archivisti hanno elaborato dei glossari.

Il più diffuso e impiegato è quello predisposto ormai alcuni decenni fa da Paola Carucci1, uno strumento molto utile che sarebbe interessante integrare e aggiornare alla luce dei cambiamenti avvenuti negli ultimi anni nel campo della gestione documentale e più in generale in seguito all’avvento del digitale. Si tratta di un glossario relativo soprattutto ai termini utilizzati nel trattamento degli archivi storici.

Per una terminologia più vicina all’ambito della gestione documentale può essere utile consultare la sezione “Termini e definizioni” della norma UNI ISO 15489-1:2006.

Sono state inoltre rese disponibili in rete alcune risorse utili per avvicinare gli utenti agli archivi.

È il caso del portale Lombardia Beni culturali, promosso da Regione Lombardia, da cui si accede a diverse banche dati e ad un un glossario dei termini tecnici utilizzati2 o di quello pubblicato sul sito della Direzione generale per gli archivi che propone alcuni dei vocaboli di più largo utilizzo3

Approfondiamo la conoscenza di uno dei termini che a volte sfuggono allo sforzo descrittivo contenuto nei glossari, perché utilizzato prevalentemente nella prassi archivistica e in particolare nel trattamento fisico della documentazione: parliamo dell’unità di conservazione, detta anche unità di condizionamento.

Questa espressione si riferisce al contenitore che raccoglie la documentazione, fascicoli o singoli documenti (in alcuni casi anche registri), ai fini della sua conservazione materiale.

Ecco la definizione di Carucci:

“L’“unità di conservazione” è il contenitore in forma di busta, faldone (termine usato prevalentemente presso gli archivi correnti), scatola, cartella (termine usato di massima a Milano come sinonimo di busta mentre in generale come contenitore di documenti di formato particolare)”4.

Si fa notare che anche i volumi possono costituire singole unità di conservazione, come ad esempio nel caso dei verbali rilegati.

Si tratta come è evidente di un termine prevalentemente usato nella manualistica e fra gli addetti ai lavori: solitamente gli archivisti fanno riferimento alle unità di conservazione per ricomprendere con un unico termine tutte le varie tipologie di contenitori che possono accogliere la documentazione di un archivio, con il quale possono dar conto della presenza, all’interno di un complesso documentario, di buste, volumi, scatole o altre tipologie di aggregazione fisica dei documenti5.

Il termine in questione ne racchiude quindi molti altri.

Innanzitutto le buste, le più comuni unità di conservazione, ossia contenitori di cartone chiusi su due o su tre lati da fettucce usate per trattenere i documenti che vi si conservano sciolti o raggruppati in fascicoli.

Sono utilizzati come sinonimi di busta i termini cartella o faldone6, ma, a seconda delle diverse aree storico-geografiche anche mazzo (Italia centro-settentrionale), fascio (Italia meridionale), pacco (Piemonte), filza (ambito toscano, emiliano, genovese e veneto). Questi ultimi vocaboli fanno riferimento all’uso risalente nel tempo di tenere insieme i documenti con varie modalità (cartoni o tavole di legno) legandoli con lo spago. Particolare è soprattutto la filza che deriva dall’uso medioevale di raggruppare i documenti uno sull’altro infilzandoli con un lungo ago, per poi, in fase di conservazione, legarli attraverso un nastro o uno spago.

Un’ulteriore unità di conservazione può essere rappresentata dalla scatola che viene solitamente utilizzata per la conservazione di documentazione che necessita di un trattamento particolare in relazione al suo supporto o al formato.

Le unità di conservazione, così come le conosciamo nel mondo analogico, non esistono più nello scenario digitale, dove ai fini conservativi si utilizzano altri concetti e soluzioni e, conseguentemente, un’altra terminologia.

 

[1]    P. Carucci, Le fonti archivistiche: ordinamento e conservazione, Carocci editore, Roma, 2015 (1ª ed. 1983).  Si può fare riferimento anche al glossario contenuto nello standard internazionaleISAD (G): General International Standard Archival Description.

[2]    Esso è raggiungibile all’indirizzo http://www.lombardiabeniculturali.it/archivi/glossario/.

[3]    Il glossario è disponibile all’indirizzo http://www.archivi.beniculturali.it/index.php/abc-degli-archivi/glossario..

[4]    P. Carucci, M. Guercio,Manuale di archivistica, Carocci editore, Roma, 2009 (1ª ed. 2008), pag. 89.

[5]    In un successivo contributo esamineremo invece le unità archivistiche e analizzeremo la differenza con le unità di conservazione.

[6]    Il termine busta è maggiormente utilizzato con riferimento al trattamento degli archivi storici, mentre faldone viene più comunemente usato nell’ambito della gestione degli archivi correnti.